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La colonizzazione della montagna

foto: l'antico borgo di Cecciola - archivio Parco

L'abbondanza di boschi, acque limpide, fauna selvatica e frutti spontanei e la disponibilità di legname e pascoli hanno spinto l'uomo a frequentare l'Appennino Tosco-Emiliano fin dai tempi antichi. Studi archeologici fanno risalire al Mesolitico le prime presenze umane: gruppi nomadi che si accampavano in prossimità del crinale o degli specchi d'acqua, dove era piú frequente incontrare animali selvatici. Ma la ripidità e instabilità dei versanti e le condizioni climatiche non hanno favorito lo sviluppo di insediamenti stabili nella fascia piú propriamente montana. Solo nel medioevo sorsero i primi borghi nei luoghi piú stabili e meglio esposti, attorno a edifici religiosi, corti e castelli. Bizantini e Longobardi furono i primi a dare al territorio un'organizzazione definita e con i Franchi assunse un peso sempre maggiore l'influenza ecclesiastica. Un ampio settore di queste montagne appartenne per secoli alla "Corte di Nasseta", assegnata ai Benedettini del monastero di S. Prospero di Reggio, che si estendeva fra le vallate del Riarbero e dell'Ozola, dal Secchia fino al crinale appenninico; il nome derivava dal Naseto, uno dei torrenti della "Lama Freolaria", l'antica selva che ricopriva queste terre. Lo sfruttamento dei pascoli e dei boschi fu spesso motivo di contrasti fra clero, popolazioni e signori locali e la corte venne alla fine distrutta durante l'ennesima guerra fra i nobili di Busana, Sologno e Piolo nella prima metà del '400.

Dai Canossa agli Estensi

fortino della Sparavalle a Busana fatto costruire da Francesco IV (1828 - 1843) -archivio Parco

L'espandersi dei Canossa verso la montagna, intorno al X secolo, fece sorgere diverse nuove fortificazioni, animando anche lo spirito religioso dell'epoca. Schiere di pellegrini, incuranti dei disagi, salivano verso i passi di Cento Croci e Pradarena, sostando nei numerosi ospizi; quello di S. Giacomo a Ospitaletto, in particolare, secondo la tradizione era stato voluto da Matilde per alleviare il cammino verso il celebre santuario del Volto Santo a Lucca. Finito il dominio dei Canossa, le valli risuonarono delle frequenti battaglie fra famiglie rivali, che accampavano diritti sui diversi feudi e corti che facevano capo ai castelli di Busana, Piolo, Ligonchio e alle terre di Vallisnera. In questa contesa si inserí anche il Comune di Reggio che, dopo il 1218, governó queste zone per circa un secolo. Nella prima metà del '400 il territorio dell'alta valle del Secchia entró a far parte dei vasti possedimenti degli Estensi, che ne mantennero il controllo fino all'arrivo delle armate di Napoleone. La valle del Liocca e le terre di Ramiseto e Vallisnera (un tempo "Valle dei Cavalieri") rimasero, invece, per molti secoli sotto la diocesi di Parma o delle nobili casate che si succedettero alla guida della città. Soltanto nel 1844 un trattato fra i ducati di Modena e Parma ne sancí l'unione al territorio reggiano. La giurisdizione sulla montagna, dopo il periodo napoleonico, tornó agli Estensi, che la amministrarono fino all'annessione al Regno d'Italia. I Duchi d'Este durante i secoli del loro dominio si fecero promotori di vari progetti e opere per lo sfruttamento del territorio. La fascia di foreste che rivestiva l'alta valle del Dolo e l'Alpe di Cerreto faceva parte dei Reali Boschi della Montagna Reggiana e il loro sfruttamento era regolato da precise leggi che ne garantivano il mantenimento anche tramite interventi di rimboschimento, dei quali rimane un esempio nell'Abetina Reale. Alla fine del XVII secolo venne progettata una strada che doveva passare per il Passo del Cerreto, fino ad allora di scarsa rilevanza; l'opera, ripresa nel periodo napoleonico e completata dagli Estensi intorno al 1840, é oggi la principale via di collegamento tra Reggio e La Spezia. Nel corso dell'ultima guerra la montagna reggiana é stata teatro della lotta partigiana, che in queste valli ha scritto pagine significative, arrivando a controllare vasti settori del territorio e contribuendo alla nascita della celebre Repubblica Partigiana di Montefiorino. 

Vita, cultura e tradizioni

foro: disegno di una Teggia: insieme ai Castelli erano le abitazioni in legno o in pietra utilizzate dai pastori - autore T.Gironi - Archivio Servizio Parchi e Risorse Forestali

L'asperità dei luoghi e il gelo invernale non hanno reso mai facile l'esistenza alle genti appenniniche: non tutto si poteva coltivare e non sempre i raccolti arrivavano a maturazione. Ma nonostante le difficoltà la vita scorreva operosa per gli abitanti di queste valli, scandita dalle stagioni e dal lavoro nei boschi e nei pascoli. All'ombra dei faggi risuonavano i colpi dei taglialegna e i loro avvertimenti si univano alle grida dei mulattieri che incitavano gli animali. Lungo i torrenti il rotolare delle pietre si mescolava al rumore dei tronchi, guidati con lunghe pertiche, che scendevano a valle portati dalle acque rilasciate da una diga temporanea costruita in un tratto piano (il "bottaccio"). D'estate, nelle radure tra la faggeta, l'odore acre del fumo saliva dai cumuli di rami coperti di terra che bruciavano lentamente sotto gli occhi attenti del carbonaio, spesso venuto da lontano, a condividere con nuovi compagni la capanna che insieme avevano costruito in primavera, e che li avrebbe ospitati fino alle piogge autunnali. Il vento portava i belati delle greggi che a maggio salivano ai pascoli d'alta quota. In autunno i castagneti vicini ai borghi si animavano di famiglie intente alla raccolta dei preziosi frutti che, dopo essersi essiccati al fumo dei metati, venivano trasformati dalle macine dei mulini ad acqua in farina rossa, scorta vitale per il lungo e freddo inverno. Di tutto questo mondo restano testimonianze nelle pietre lavorate delle case, nei mulini e nei metati che ancora emergono tra i boschi. I terremoti che sconvolsero a piú riprese la montagna reggiana hanno, invece, lasciato poche tracce delle antiche torri, degli ospizi e delle chiese medievali. Oratori e pregevoli maestà in marmo apuano sono peró rimasti lungo i sentieri, nelle corti e nei borghi meglio conservati. Significative conoscenze sul passato dei paesi e delle località dell'alto reggiano sono state ottenute dagli scritti di studiosi che negli ultimi secoli li visitarono mossi dalla curiosità e da interessi scientifici. Nel '700 Lazzaro Spallanzani salí a cavallo fin sulle rive del Lago Calamone, spinto dal desiderio di verificarne la decantata bellezza e la leggenda che lo circondava: si diceva che il lago non avesse fondo, ma lo scienziato reggiano riuscí a misurarne con precisione la profondità. Un secolo piú tardi Filippo Re, importante figura nella storia dell'agronomia italiana, percorse questi sentieri passando da un borgo all'altro per annotarne aspetto e colture. I contatti commerciali con la pianura e soprattutto il fenomeno della transumanza stagionale verso la Maremma hanno, inoltre, alimentato una vasta produzione poetica, diffusa tra pastori e artigiani ambulanti, attraverso la quale é possibile ricostruire leggende e avvenimenti legati alla vita di queste comunità. Le tradizioni della gente di montagna continuano ancora oggi nelle sagre che animano i paesi durante la bella stagione. L'espressione culturale piú interessante é rappresentata dai "maggi", un teatro popolare all'aperto di antica origine, diffusosi dalla vicina Toscana, che é ancora vivo nei centri della valle del Dolo. La festa era particolarmente sentita da tutta la popolazione dei borghi, le scene e i costumi erano semplici e fantasiosi e i testi, per lo piú ispirati a temi cavallereschi, venivano composti e interpretati dagli stessi abitanti. Alcuni di questi spettacoli sono stati recuperati da compagnie maggistiche che ogni anno partecipano a una rassegna estiva a Villa Minozzo.